Pensare Circolare: una possibilità o un lavaggio di coscienza?

La circolarità è uno dei temi caldi dei quali continueremo a parlare anche quest’anno. Pure nel mondo della moda! Ne abbiamo già sentito parlare in svariate occasioni ed effettivamente i presupposti e le promesse sembrano interessanti. L’economia circolare offre un approccio alternativo all’attuale sistema lineare “prendi (risorse) – fai (ovvero produci di tutto di più) – butta (qui non c’è bisogno di spiegazioni)“! In un sistema circolare, ovvero rigenerativo, si tenta di far rimanere tutto in circolo, senza buttare via nulla…almeno in teoria!

Pro e Contro della circolarità

In un sistema circolare, la moda potrebbe superare alcuni dei problemi più urgenti che l’industria globale dell’abbigliamento (e il Mondo in generale) deve affrontare: cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, smaltimento dei rifiuti e l’inquinamento, creando allo stesso tempo opportunità per una crescita responsabile. Ovviamente tutto ciò non avviene in cinque minuti: ci vogliono investimenti in processi innovativi, ci vuole un cambio di mentalità (aiuto), ci vuole trasparenza e tracciabilità (che qui fanno finta di essere circolari in tanti ma non si capisce mai dove vanno a finire i milioni di capi ritirati). I modelli di business devono cambiare, così come l’approccio alla progettazione dei prodotti.

La moda, per adottare un sistema circolare, dovrebbe poter riutilizzare e riciclare i materiali all’infinito, eliminando l’inquinamento, gli sprechi e sopratutto evitare l’uso di materie prime vergini (andando così ad impoverire le risorse terresti, che comunque sono limitate); nello stesso tempo diminuirebbero i rifiuti tessili ed i sistemi naturali avrebbero la possibilità di rigenerarsi (invece di essere soffocati dai tessuti lasciati imputridire sulla terra e sotto il cielo). Tante le azioni già intraprese, come le innovazioni tecnologiche per il riciclaggio dei tessili fino ai passaporti digitali dei prodotti, passando per le bio-tecnologie ed i materiali rivoluzionari. Ma la strada è ancora lunga e dispendiosa…

Quelle piccole, scomode verità…

Sono due, sorelle, quasi gemelle, sicuramente figlie della stessa madre. Si chiamano Sovrapproduzione e Consumo Eccessivo. Sono loro le cause dei 100 miliardi di capi che vengono acquistati ogni anno e anche dei 92 milioni di tonnellate che vengono buttati. Si stima che entro il 2030 quest’ultimo numero dovrebbe aumentare a 134 milioni di tonnellate. Insomma, non poco. Stessa sorte in crescita, se non si cambia approccio, pare spetti alla produzione di fibre tessili, che dovrebbe aumentare di un altro 34% raggiungendo i 146 milioni di tonnellate nel 2030. Cosa c’è di circolare in tutto ciò? Praticamente niente! Ma, opportunamente motivati dalla minaccia delle risorse limitate e da una crescente preoccupazione tra i consumatori per l’impatto ambientale dei loro acquisti, i marchi si stanno impegnando per la sostenibilità, lanciando iniziative dal sapore eco-centriche in qua e là. Ma la verità è ancora un’altra…

“Stiamo producendo e comprando più di quanto la terra possa sostenere. Le aziende NON vogliono produrre meno e tanto meno vogliono che noi compriamo meno”.

Ecco perché, guardando i numeri e non le intenzioni, sembra che questo approccio “circolare” sia più una trovata di marketing per far lavare le coscienze a entrambi: aziende, che si raccontano che ci stanno provando, e consumatori, che possono continuare a comprare cose “buone“.

Limitazioni oggettive

Stando all’ultimo report della Ellen MacArthur Foundation, meno dell’1% della fibra utilizzata per produrre abbigliamento viene riciclata per realizzare nuovi indumenti. Di solito, gli abiti raccolti in alcuni negozi o catene finiscono per essere riusati per materiali come rivestimenti, isolanti per le auto, imbottiture per materassi, insomma per uso industriale, ma raramente per farne altri capi di abbigliamento. Questo perché ci sono ancora da risolvere alcune limitazioni oggettive. Tipo:

  1. Preparazione e selezione: è un processo lungo, spesso fatto manualmente; si tratta di rimuovere accessori ed applicazioni, oltre che scucirli. Richiede tempo ed energie, oltre ad una forza lavoro preparata.
  2. Materiali Misti: i capi non sono quasi mai 100%. Il che li rende difficilmente riciclabili. Per le composizioni miste, ovvero separare le varie fibre, le aziende stanno sperimentando nuove tecnologie e portando avanti le innovazioni, ma molte sono ancora in fase di ricerca e sviluppo e non sono pronte a lavorare con grandi numeri.
  3. Senza Etichette alcuni capi sono semplicemente irriconoscibili. Nel senso che la composizione mista è un terno al lotto. E se non si sa cosa c’è dentro, diventa difficile capire come riciclarli. Anche in questo caso si stanno sperimentando tecnologie per il riconoscimento delle fibre, but it’s a long process 😉
  4. Riciclare Costa: finanziare lo sviluppo e la scalabilità delle innovazioni tecnologiche per riciclare i vestiti in nuovi vestiti è costoso. Ci vorranno anni. Soldi. Impegno.

Indubbiamente la direzione è quella giusta, ma se nel frattempo che la ricerca fa il suo corso, le aziende iniziassero ad esaminare il problema della sovrapproduzione investendo in canali di guadagno alternativi che non richiedono la realizzazione di nuovi vestiti, come il noleggio, l’usato e i servizi di riparazione?!?

In Italia come siamo messi con il riciclo tessile?

É uscito proprio in questi giorni il report della Fondazione Sviluppo Sostenibile in merito al riciclo (si può scaricare la sintesi qui) ed il paragrafo di apertura è proprio dedicato al tessile. Questo settore produce circa 480.000 t di rifiuti, più della metà proviene dall’industria, mentre un 30% dai rifiuti urbani. In generale c’è stato un aumento quasi del 40%. Insomma, non siamo proprio bravissimi e pare che i numeri vadano aumentando.

Nel 2019 il 46% dei rifiuti del settore tessile viene avviato a recupero di materia, mentre l’11% va a
smaltimento; una quota molto rilevante dei rifiuti, circa il 43%, viene destinato ad attività di tipo
intermedio, come pretrattamenti e stoccaggio. Nel tempo sono cresciute notevolmente le operazioni
intermedie. A seguito dello stoccaggio, i rifiuti vengono smistati con i medesimi codici EER verso aziende specializzate in attività di cernita, preparazione per il riutilizzo e trasformazione in pezzame industriale dei prodotti non rivendibili come usato (note nel settore come “selezionatori”), che li sottopongono a recupero di materia. La prima destinazione è la Campania (dove arriva circa il 50% di tali rifiuti, provincia di Caserta), seguita da estero (14%) e Toscana (13%).
I rifiuti avviati direttamente a recupero di materia, pur pesando di più sul totale gestito nel 2010 (63%), in
valore assoluto sono rimasti sostanzialmente stabili fino al 2019 (tra 215.000 e 220.000 t in entrambi gli
anni considerati). I rifiuti smaltiti in discarica o con altre modalità di smaltimento, invece, pur essendo simili a livello di incidenza sul totale tra il 2010 e il 2019 (intorno al 10%), sono aumentati di quasi il 50% in quantità (passando da circa 35.000 t a oltre 50.000 t).

Insomma, io rimango dell’idea che MENO è MEGLIO ed è la soluzione più auspicabile al momento 😉 Tu che dici?