Modelli impossibili: quando in passerella ci sono solo gli estremi

La cosa che più mi è saltata all’occhio, alla fine di quest’ennesima fashion week milanese, è stata la presenza in passerella di donne (in verità anche uomini) dalle fisicità molto molto simili e molto molto magre. Filiformi, oblunghe, senza troppe curve e con molti spigoli. Niente di nuovo, direte voi; ed effettivamente no, non è niente di nuovo. Eppure, dopo un paio di anni in cui la parola “inclusività” ha fatto tendenza e portato in passerella corpi e età disparate, facendoci credere ad una moda aperta ed illuminata, ritornare ai vecchi modelli…mi ha fatto un po’ storcere la bocca.

MANNEQUIN: STORIA DI MODELLE

Un passo indietro nella storia ci riporta all’Europa del XIV secolo, anno in cui il Sig. Worth, primo stilista considerato il padre dell’alta moda, chiese a sua moglie di “indossare” i capi da lui disegnati. Fino ad allora gli abiti venivano presentati sui manichini, in un primo momento su quelli piccoli, per far vedere l’abito “in scala”, poi su quelli “a misura“. Ma è con le “house model” che ufficialmente Worth dà inizio a questa pratica comune, che da allora venne adottata da tutte le case di moda parigine, dando il via a quella che è diventata una fortunata professione per molte (ringraziate Worth, care le mie top model 😉 ). Il dato interessante era che allora non esistevano requisiti di misurazione standard e la maggior parte dei designer utilizzava donne di taglie diverse per dimostrare la varietà dei loro modelli. Una scelta talmente sensata che fu abbandonata nel corso degli anni. Le modelle, da semplici manichini viventi, grazie alla fotografia di moda, hanno trovato un mercato in espansione sotto vari aspetti. Non solo indossatrici, ma vere e proprie figure di riferimento, tanto che da corpi anonimi e mal pagati, sono diventate personalità riconosciute e dai caché elevati. Ricordiamo, negli anni 40, le prime “top” model del mondo: Bettina Graziani, Barbara Goalen e Lisa Fonssagrives. Da qui alle prime agenzie di moda il passo è stato breve, in un’escalation che ha fatto la fortuna di tantissimi imprenditori (e imprenditrici), oltre che di tantissime modelle. Le fisicità erano disparate e, come sempre accade nella moda, c’è stato un alternarsi di esempi più androgini e maschili con corpi più sinuosi e femminili. Ricordo con piacere gli anni 90 e le “super top“, da Cindy Crawford a Naomi Campbell, da Linda Evangelista a Claudia Schiffer, iconiche, incredibili ma tutto sommato umane. Non così umane, invece, e sopratutto non così in salute, sembravano le modelle in voga negli anni 2000, tanto che il British Fashion Council fece firmare ai brand un contratto che impediva di usare modelle di età inferiore ai 16 anni o che sembravano avere un disturbo alimentare. Tanti i paesi che hanno seguito l’esempio britannico, emanando un requisito di indice di massa corporea minimo (che non so a quanto sia stato fissato, ma temo qualcuno abbia dimenticato questo dettaglio). Questo perché, nel tempo, si sono verificati numerosi casi di modelle affette da anoressia che molto spesso hanno portato anche alla morte. Nel tempo sono stati standardizzati dei requisiti di altezza e peso, sopratutto per le passerelle (per i servizi fotografici o altri tipi di eventi non c’è questa rigidità), ed è forse questo che ha portato ad un’uniformità pericolosa nella scelta e nella proposta di determinati “modelli”. Modelli che, proprio come dice la parola, diventano esempi di riferimento per moltissime persone, sopratutto giovani e adolescenti…non senza provocare danni.

Viene da chiedersi, a questo punto: perché seguire in questa direzione pericolosa e spersonalizzante? Davvero gli abiti stanno bene o vengono presentati meglio solo indosso a delle figure oblunghe e dalle proporzioni spesso lontane dalla media della popolazione mondiale? Tutto inizia, anche, tra i banchi delle scuole professionali, quelle che andranno a tirare fuori gli “stilisti” di domani…

DAI BANCHI DI SCUOLA ALLE PASSERELLE: LE 9 TESTE E MEZZO

Che non ero una cima a disegnare, penso di avervelo già confessato. I miei figurini erano sempre “tozzi“, sgraziati e troppo realistici. Questo mi dicevano alcuni professori. Le lezioni di figurino iniziano con un’interessante introduzione sull’anatomia e sulle proporzioni del corpo umano: il corpo umano è proporzionale a 7 teste e mezzo, cioè l’altezza di una persona è uguale all’altezza della sua testa moltiplicata per 7,5. Per disegnare un figurino, dimentica il 7 e fai pace con il nove, anche il nove e mezzo: la figura, così disegnata, risulta più slanciata e permette di vedere meglio i dettagli del capo. Questo è quello che ti dicono. Io non c’ho mai creduto. Ho visto disegni, bellissimi, disegnati con proporzioni di 12 teste (praticamente figure stretchate all’infinito) che erano tutte gambe e braccia lunghissime, mentre i vestiti erano appoggiati su un busto risicato, dove dell’abito si percepiva a mala pena il colore e la forma. L’illustrazione di moda è una cosa, il figurino, sopratutto se è funzionale alla creazione reale di un modello, può anche essere ridimensionato in un’ottica non dico umana, ma nemmeno completamente aliena. Anche perché, quel che succede è che, disegnando a questo modo, l’occhio si abitua a vedere queste proporzioni; le stesse che poi si vanno a ricercare quando si deve scegliere il modello o la modella che dovranno indossare i capi in passerella.

Passerella che, va detto, è un momento importante per ogni designer/brand. È l’evento di punta, è lo show, lo spettacolo, il sogno sul quale si lavora da mesi e che si esaurisce in dieci minuti di camminata. Tutto, per quell’occasione, deve essere perfetto e curato nel minimo dettaglio. In quanto presentazione, come quando si organizza una festa o una cena, vogliamo che tutto sia al meglio. E non c’è nulla di male. Quello che c’è di stridente è il fatto di ricorrere sempre al solito modello, che nel tempo è diventato sempre più simile a quel figurino di 9 teste e mezzo disegnato sul foglio…sono forse quelle le uniche proporzioni del sogno? Se un tempo i campionari ed i prototipi erano realizzati in taglia 42, che almeno rappresentava una media, adesso siamo scesi alla 38, quando non addirittura alla 36. C’è bisogno davvero? E poi, c’è bisogno davvero che tutti i brand scelgano modelle della solita taglia? Qualcuno che si azzarda ad uscire dagli schemi, senza saltare necessariamente da un estremo all’altro?...

INCLUSIVITÀ: PER MOLTI, MA NON PER TUTTI

Una volta criticata e messa alla gogna pubblica, la Moda ha anche la capacità camaleontica di assecondare le richieste del pubblico per calmare le acque…e poi tornare a fare i cazzi suoi allegramente! È quanto successo nelle stagioni passate dove, sull’onda dei movimenti per l’inclusione di taglie anche più “umane”, tutti hanno sfoggiato esemplari più o meno curvy durante le sfilate. Curvy, plus size, in là con gli anni, con i capelli bianchi…insomma, hanno abbracciato le donne, quelle vere, per democratizzare la moda. Applausi. Tutti felici. Tutti a parlarne bene, di questo gesto fatto più per facciata che per convinzione. Anche perché, a un paio di fashion week di distanza, sono tornati tutti (impressionante, a parte Dolce&Gabbana e qualche altra perla rara) con modelle più oblunghe, senza forme e tristi del solito. Com’è possibile? Possibile. Perché saltare da un estremo all’altro non è mai una scelta che premia sulla distanza. E questi cambi repentini non sono mai motivati da una convinzione di fondo. Peccato.

Francesca Marchisio, Altaroma 2023

Non si può nemmeno entrare troppo nel merito di come una maison di moda decide di rappresentare il proprio modello femminile: ogni designer sceglie come e cosa rappresentare, facendo riferimento all’immaginario estetico e alla storia che vuole raccontare (che potrebbe anche cambiare di volta in volta, anzi, sarebbe un atto creativo e narrativo divertente, almeno non ci assuefacciamo alle solite cose…).

Ma quando più del 90% dei marchi usa lo stesso modello…beh, forse il minimo è farglielo notare. Proprio perché quel modello, che è quello del mainstream, alla fine, sarà quello ritenuto in qualche modo “vincente”, quello che “funziona”, quello che “va”. E la moda non può ignorare l’impatto sociale delle sue scelte. Fortunatamente esistono situazioni alternative in cui gruppi di designer propongono altri tipi di modelli, più umani, più vicini a quelle 7 teste e mezzo che poi indosseranno gli abiti nella vita di tutti i giorni 😉 Peccato che su quelli siano in pochi a puntare i riflettori.

Obiettivamente ci vuole coraggio ad uscire fuori da certi schemi. Ci vuole coraggio ad uscire dalla via segnata da altri e venduta come quella giusta perché “così si è sempre fatto e così si fa“. Ci vuole coraggio a fare un campionario di un’altra taglia. E io, questo coraggio, lo vedo sempre più nelle piccole realtà che nei Grandi Signori Chiacchieroni della Moda. Ai quali vorrei ricordare che il loro antenato e predecessore “utilizzava donne di taglie diverse per dimostrare la varietà dei suoi modelli“.

Possiamo prendere spunto dal passato per costruire un futuro meno omologato e meno estremo?

Il peso dei capricci della Moda

I danni di spreco, negligenza e follia!

Con il passare degli anni (e con i martellamenti mediatici) siamo diventati tutti più o meno consapevoli dei disastri della Moda. I video, gli articoli ed i servizi di varie trasmissioni, dalla Rai alle Iene, oltre alla divulgazione quotidiana fatta sui social network da personaggi più o meno informati ed influenti, hanno messo in luce quelle che sono le magagne della moda: dalla sovrapproduzione allo sfruttamento dei lavoratori, dall’inquinamento ambientale fino alla tendenza poco gentile di usare gli altri Paesi (soprattutto del sud del mondo) come nostra discarica. Effetti conseguenti di un sistema che non funziona a monte, lì dove interi uffici stile assecondano i capricci del proprio EGO senza pensare alle possibili ripercussioni delle proprie azioni. Di aneddoti ne avrei parecchi da raccontare, io come altri milioni di persone che hanno lavorato in questo mondo; la scorsa settimana poi, facendo un giro tra stockisti, produttori e stampatori, ho avuto la conferma che niente è cambiato e che la follia imperversa ancora. Per questo è giusto che certe storie siano raccontate…

TUTTA COLPA DI QUEL “CERULEO”…

Il pippone di Miranda sul “ceruleo” ne “Il diavolo veste Prada” ce l’abbiamo presente tutti. Siamo perfettamente consci del valore sociale di certe scelte di stile (ma bastava anche meno), meno consci dell’impatto ambientale che generano certe seghe mentali o capricci (che rende meglio l’idea) che escono direttamente dagli uffici stile dei brand. Perché, diciamoci la verità, parte tutto da lì. Reparti marketing e reparto design lavorano gomito a gomito per lanciare fuori collezioni con cadenza…vabbè, diciamo almeno semestrale ma sappiamo bene che ce ne sono minimo 4 all’anno (nel lusso) e circa 32 all’anno nel fast fashion. Ed è da lì che partono input ai fornitori, sotto forma iniziale di campioni e campionari. Ed è lì che iniziano i primi sprechi: di materia prima, di tempo, di lavoro…

Quando ero una giovane stilista in azienda (circa 21 anni fa) il processo “creativo” era molto schematico ed industrializzato: venivano dati degli input iniziali, la collezione divisa in mini gruppi e a ciascuna designer veniva assegnato il suo (o i suoi), da sviluppare secondo linee guida abbastanza rigide. Dopo una prima fase di disegno, per modo di dire, si passava allo sviluppo del primo campione (cartamodello, taglio del tessuto, cucito, eventuali ricami e stampe). Una volta arrivato in azienda veniva controllato e sdifettato: cm in più o in meno da limare o aggiungere, un ricamo da spostare di qualche millimetro, il tono di celestino che non era del celestino giusto…a volte si trattava di dettagli impercettibili, altre volte di grossi errori da correggere. In entrambi i casi, si partiva con la richiesta di un secondo campione. Altro tessuto, altro ricamo, altre stampe, altri bagni di colore per tingere, altro lavoro. All’arrivo del prototipo successivo se tutto andava bene, si chiedeva comunque un terzo sample, così, per essere sicuri. Una sicurezza che costa materia prima, uso di energia, acqua e tempo. I campionari (tra uomo-donna-bambino-accessori) erano composti da circa 800 pezzi. Moltiplicali per 3 e si arriva già a 2400 capi. Ri-moltilplica per il numero di ripetizioni di campionari per tutti i rappresentati europei e si arriva a 4800: 7200 pezzi ogni sei mesi SOLO per fare campionari funzionali alla vendita della collezione. Ai tempi tutto ciò mi sembrava assurdo. Oggi, nonostante tecnologie e innovazioni che potrebbero impedire tutto questo spreco, funziona ancora così…

Rotoli sospesi…

Guarda, laggiù ci sono dei rotoli, saranno all’incirca 3000 metri di tessuto (3 Km), che non so cosa farci perché sono tutti logati“. La dura vita di chi recupera gli stock comprende anche queste menate. Il salvataggio di materiale non utilizzato, sia dai produttori sia dai vari marchi, è un’opera buona che nasconde spesso anche notevoli problemi da risolvere. Perché non tutto è rivendibile. Tipo i tessuti con i loghi o le firme dei brand. Farsi fare le proprie stampe è una pratica comune che va a rappresentare ed identificare la marca o la collezione di quella stagione. E fin qui tutto bene (diciamo). Il problema arriva quando di quella stampa se ne fanno fare km per abbattere i costi anche se chiaramente non verranno usati tutti. A volte avanzano pochi metri, altre volte autostrade di tessuti che le Signore Aziende non vogliono tenere a magazzino (di fatto rappresentano un costo nella voce di bilancio) e quindi vendono a stock (se non le bruciano prima: sì, vengono incenerite. Materiali nuovi, magari anche costosi, bruciati vivi)! Se il rogo non avviene “in casa”, il problema viene passato al povero stockista, che si ritrova con bancali pieni di materiale sospeso in un limbo dove é vietata la vendita (figurati se nome e logo del marchio possono essere riutilizzati dalla signora Pina per farsi un bel completo) ma bruciare sembra uno spreco e un crimine.

Li guardo buttati nell’angolo e penso che vorrei dare fuoco io a certi signori. Oppure multarli pesantemente per questa negligenza (altro che Responsabilità Estesa del Produttore). O obbligarli a tenerseli in casa e costituire un intero alla progettazione intelligente di collezioni o prodotti con quei materiali che vengono smaltiti perché “vecchi”…di sei mesi! E intanto siamo qui a consumare risorse e inquinare l’ambiente, il tutto mentre vengono sotto-pagate le persone che lavorano…

Il punto di colore…

Mentre continuo a camminare tra i rotoli abbandonati vedo una pila di pizzo di un color giallo pulcino sbiadito. “Cos’è, non gli piaceva il giallino?” – “Questo è stato fatto per il brand XX, ne ho preso una camionata. Ma sai quante volte recupero balle di tessuto di un colore che non andava bene? Sono così, sbagli il punto di colore e se ne disfanno…“. Il punto di colore è fondamentale. Causa di crisi isteriche nel reparto design a qualsiasi ora del giorno e soprattutto della notte (perché se non lavori anche di notte vuol dire che non sei abbastanza dedito all’Azienda), è una nota dolente causa di enormi sprechi. Far tingere una pezza di tessuto è un lavoro che richiede acqua, energia e soprattutto metri di tessuto. Difficilmente vengono fatte prove per pochi metri (per una questione tecnica e pratica). Va bene fare delle prove per valutare la resa finale, va meno bene farne mille mila per raggiungere quel punto di colore desiderato che se è un mezzo tono sotto o sopra allora è una tragedia!!! Si puntano i piedi, si grida al sacrilegio, si infama il fornitore per l’ERRORE ENORME e lo si obbliga a rifare il colore…destinando quei rotoli alla “spazzatura” (e a volte le prove “sbagliate” manco vengono pagate, costringendo i signori produttori a fare salti mortali per rimanere in piedi…poi ci si chiede perché le aziende in Italia chiudono e perché le produzioni finiscono a strozzinare fornitori esteri). Se non sono capricci questi…è pazzia! Oppure mancanza di informazione sui processi produttivi. Anche in questo caso obbligherei gli stilisti ad uscire dai loro uffici di design ai piani alti per fare giri formativi in tintorie, aziende tessili, terzisti e stamperie. Forse farebbero meno capricci…o forse no perché il livello di empatia è decisamente inferiore all’ego!

Dal giorno alla notte…

Lavoro con il marchio MEGASUPERTOP da anni. Cerco sempre di accontentarli. Un giorno mi chiamano che hanno bisogno di 1000 metri di tessuto con una stampa per il giorno dopo. Metto in pausa un altro lavoro, mi faccio mandare i file, preparo tutto e sto una nottata in piedi per farglieli in tempo. Il giorno dopo mi arriva una mail (nemmeno una telefonata) e mi dice che hanno cambiato idea e che quella stampa non gli piace più. Ecco che mi ritrovo con questi rotoli che non so cosa farci“. Io avrei saputo cosa farci…roba da film horror! Maledetti. Hanno cambiato idea. Dal giorno alla notte. Dopo aver messo in mezzo persone, tempo, materiali, energia…questo è il vero SPRECO che c’è dietro alla moda così com’è impostata al momento. Tutti possono cambiare idea, ci mancherebbe, ma certi cambi costano più degli altri. E se dietro a certi cambi c’è un capriccio momentaneo dello stilista di turno…ecco, forse si potrebbe pensare cinque minuti in più! Mentre continuiamo a camminare in stamperia mi vengono raccontate altre storie simili, accompagnate da rotoli di tessuti dai colori brillanti “sbagliati” che vorrei portare tutti a casa per fargli giustizia e rassicurarli sul fatto che non sono loro ad essere sbagliati, ma questo pazzo sistema di cui fanno parte. Un sistema che, purtroppo, ancora non è responsabilizzato a sufficienza per i suoi errori e per i suoi peccati di leggerezza. Un sistema che non è ancora abbastanza organizzato per evitare sprechi così ingombranti e che, nello stesso tempo, non riesce veramente a cambiare ed evolvere verso una dimensione creativa ma meno pazza. Un sistema incapace di svincolarsi dalle tendenze e dalla smania di novità, al quale basta sporcarsi le mani di verde per avere la coscienza a posto…

Quindi?

Quindi più che scuole di moda servono rehab per fashionisti disagiati! 😉 Scherzo. Servono soluzioni più stringenti per le aziende ed in contemporanea un’educazione più consapevole dei futuri designer (ma anche di quelli che sono negli uffici al momento) perché capiscano che l’impatto di un capo inizia dalla sua progettazione ed ogni scelta, anche quella di un ceruleo al posto di un carta da zucchero, ha un costo che paghiamo tutti. Tu che ne pensi?

Sulle aziende al momento posso fare poco, ma sui designer ci lavoro da tempo. A Gennaio parte il nuovo corso Re-Think Fashion e uscirà una cosa bellissima e utilissima. Rimanete connessi 😉

I buoni propositi dell’UE: la strategia per la moda sostenibile e circolare

Ogni azione conta, è vero, ma ce ne sono alcune che hanno un impatto maggiore (o almeno dovrebbero). Perché quando ci si mettono di mezzo i governi a cercare di tutelare ambiente e persone marcando strette le aziende, magari qualche meccanismo si smuove e chi deve inizia a prendersi le proprie responsabilità. In questo caso ci si è messa direttamente tutta l’Unione Europea a provare ad elaborare un piano concreto (che per il momento è solo un piano, niente di definitivo o legislativo) per dare una svolta sostenibile e circolare al settore tessile. È stato presentato a Bruxelles dalla Commissione Europea un pacchetto di proposte che mirano, nell’ambito del famoso Green Deal, a fare della sostenibilità dei prodotti la norma e non un’eccezione, con una serie di proposte che partono dal design fino alla responsabilità del produttore sul loro smaltimento, compresi caldi inviti a “produrre meno collezioni”.

Dal design allo smaltimento

Nel documento si parte dalle basi, spronando per un design circolare e sostenibile fin dal principio. Per questo si propongono di elaborare dei “requisiti minimi di progettazione ecocompatibile” per tutti i prodotti che verranno successivamente immessi sul mercato europeo (aspetti da considerare sono prodotti che durano, quindi basta obsolescenza programmata, e ricilabilità di questi ultimi). Vanno tuttavia elaborati metodi “standard“, che dovrebbero essere definiti attraverso un processo trasparente e basato sulla scienza; dove i concetti di di riciclabilità, durabilità, riparabilità e riutilizzabilità siano chiari e dai contorni netti (che ad essere “un po’ riciclabili ci si mette un attimo). Anche sui materiali c’è bisogno di fare chiarezza, di avere metodi per dimostrarne l’impatto usando metodi di LCA (Life Cycle Assessment) e di avere una sorta di classifica della sostenibilità delle fibre per ottimizzare la scelta dei materiali. Bandite sostanze tossiche, per le quali viene sottolineata la necessità di trovare soluzioni sicure e meno impattanti, così come si spinge “la riduzione delle emissioni nell’acqua, nel suolo e nell’aria come obiettivi politici più importanti per processi di produzione più ecologici“. Se invece di ridurre si potesse evitare, sarebbe ancora meglio…Ma non si può fare tutto, tuttoinsieme. Così, anche per quanto riguarda la dispersione delle infime micro-plastiche (sì, quelle che gli scienziati qualche giorno fa hanno trovato anche nel sangue umano), ci si limita a proporre una riduzione della dispersione attraverso l’uso limitato di fibre sintetiche e l’introduzione di filtri appositi nei tubi di scarico delle lavatrici.

Modelli circolari e trasparenza

Il design e i materiali possono fare poco se non si cambiano i modelli di business. Ecco perché nel simpatico piano europeo vengono incoraggiati i modelli di business circolare che includono “il riutilizzo, la ridistribuzione, la vendita al dettaglio e la riparazione dell’usato e i modelli di prodotto come servizio, in particolare per i prodotti che subiscono un rapido ricambio come l’abbigliamento per neonati e bambini“. Per questo servono prodotti durevoli e di qualità, in grado di durare nel tempo; così come andrebbero introdotti servizi di riparazione o ri-progettazione (upcycling) anche da parte di grandi aziende (perché noi sappiamo bene che quelle più piccole già lo fanno) e agevolato il mercato del noleggio di abiti. L’altro tasto dolente che si intende normalizzare è quello della trasparenza: i brand dovranno pubblicare informazioni sulla provenienza, composizione e modalità produttiva di ogni singolo prodotto, rendendo queste informazioni accessibili al cliente finale. Niente più furbi, almeno in teoria, pena l’esclusione dei prodotti dal mercato UE!!! Nello specifico dovrebbero essere rese note:

  • l’impronta ambientale del prodotto
  • i materiali di cui è composto (Bill Of Materials)
  • riparabilità (da definire attraverso una norma apposita)
  • presenza di sostanze chimiche pericolose, comprese le sostanze pericolose utilizzate nella produzione
  • utilizzo di contenuto riciclato (e di che tipo)
  • durata/vita prevista
  • rilascio di microplastiche

Tra le cose rese obbligatorie un grande assente è l’aspetto sociale, ovvero garantire le condizioni dei lavoratori in ambito tessile, affinché vengano penalizzate le aziende che ancora lavorano in maniera poco etica alimentando la schiavitù moderna. In questo senso l’UE potrebbe sia limitare le importazioni dai Paesi che non rispettano gli standard imposti, sia fungere da stimolo per altri paesi affinché i loro standard migliorino. Insomma, o con le buone o con le cattive, certi prodotti da queste parti non ci dovrebbero proprio arrivare (poi vedrai se non si riallineano 😉 )!

Basta sovrapproduzione e distruzione di materiale invenduto

Produrre meno e far durare più a lungo. Quante volte lo abbiamo ripetuto? Ecco, anche l’Unione Europea ha iniziato a ripeterlo e paventarlo sotto forma di caldi incoraggiamenti e campagne di sensibilizzazione dei cittadini che verranno sviluppate ad hoc per educare ad un approccio più consapevole e meno consumistico. E fin qui tutto bene. Per le aziende, però, invece di sanzionare chi produce oltre un certo limite, si sono limitati ad “invitare le aziende a ridurre il numero di collezioni all’anno, ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di carbonio e ambientale e gli Stati membri ad adottare misure fiscali favorevoli per il settore del riutilizzo e della riparazione“. Però è stata inserita la proposta di un divieto di distruzione dei prodotti invenduti (quindi se produci troppo quello che non vendi te lo tieni), ma anche la riduzione dei resi, assicurando che i costi di transito siano trasferiti al consumatore, ma anche la proposta di rimozione degli ostacoli fiscali e IVA alla donazione di stock alle organizzazioni di seconda mano. Tutto questo per far diminuire il volume dei capi prodotti…

Smaltimento Controllato

E a fine vita? Sappiamo bene che il problema dello smaltimento del tessile é a tutti gli effetti un problema ! La raccolta differenziata del tessile, che da noi è in vigore dall’inizio di quest’anno senza però avere le infrastrutture idonee per la gestione, sarà attiva in tutta Europa dal 2025. Da ora ad allora andrà individuato e sviluppato un sistema di raccolta intelligente, in grado di smistare i rifiuti in maniera gerarchica (da quelli messi meglio a quelli messi peggio, individuando anche quelli riciclabili e quelli no) e sensata, anche per poter supportare il riuso e l’estensione del ciclo di vita di quei tessili che finiti ancora non sono, favorendo il riciclaggio.
Si vocifera, poi, di inserire obblighi che garantiscano che le esportazioni di prodotti tessili siano gestite in modo ecologico. Ovvero:

– Limitando l’esportazione di tessuti non selezionati verso i paesi in via di sviluppo (basta usare gli altri Paesi come la nostra pattumiera)

– Promuovendo il riutilizzo in Europa per ridurre la dipendenza dai mercati globali del riutilizzo

-Garantendo che i tessuti esportati selezionati per il riutilizzo e il riciclaggio siano effettivamente riutilizzati e riciclati.

-Inserendo una tassa per i brand per sostenere la gestione del fine vita dei propri prodotti (alleluja)!!!

Tecnologia portami via…ma soprattutto basta bugie verdi!

Sarà anche necessario continuare ad investire in tecnologie che da un lato contribuiscano a sviluppare la ricerca in ambito tessile per mantenere il settore all’avanguardia e competitivo (prima che ci mangino); dall’altra in tutte quelle che favoriscano il riciclo e supportino la durabilità, il riutilizzo e la riparazione.

L’altra interessante proposta, che porrebbe (forse) fine agli slogan verdi di molte aziende, è quella per limitare diciture e claim ambientali generali, come “verde”, “eco-friendly”, “buono per l’ambiente”, che non siano supportate da effettive prove e risultati nelle prestazioni ambientali certificati da terzi (che le auto-certificazioni, in questo caso, non valgono). È stata istituita la Green Claims Initiative, che sarà presentata nella seconda metà del 2022, nata per impedire l’uso improprio di comunicazioni ambientali fuorvianti e non veritiere nei confronti dei consumatori. Insomma, basta raccontare palle in giro per vendere di più sfruttando l’onda della sostenibilità.

In conclusione…la mia opinione

Indubbiamente questo piano strategico rappresenta la volontà di dare un riassestata al settore. Finalmente. Nonostante ciò le proposte sono alquanto blande e nebulose (se avete voglia il testo completo, in inglese, lo trovate qui) e rivelano, comunque, una scarsa attenzione al capitale umano, ovvero il cuore pulsante e la mano veramente operativa di questo settore. Per questo sarebbe stato opportuno trovare il modo per regolare le pratiche di acquisto di alcuni brand, ovvero quel coltello dalla parte del manico che molti marchi utilizzano per contrattare con i loro fornitori, imponendo prezzi di acquisto inferiori ai costi di produzione, tempi di consegna brevi o modifiche di progettazione dell’ultimo minuto; tutte modalità che mettono in ginocchio le aziende, lasciando pochissimo spazio per investire in produzione o condizioni di lavoro sostenibili, tipo un ambiente di lavoro sicuro o salari umani. Insomma, un pensierino alle pratiche sleali, unite all’obbligatorietà di un passaporto digitale per aziende e capi, avrebbe reso il quadro decisamente più completo. E onesto (ma tanto si sa che gli interessi veri delle industrie non ce la fa a scalfirli nemmeno l’EU)! Intanto prendiamo nota e vediamo gli sviluppi. Anche perché tutto ciò dovrebbe avvenire da qui al 2030…quindi nel frattempo toccherà ancora a noi fare la nostra parte 😉

Questione di pelle: problemi, soluzioni, alternative

Pelle o finta pelle (detta anche eco-pelle, che di eco, come vedremo, ha veramente poco)? Quando si entra in questo ambito si apre sempre un dibattito lungo e macchinoso, come tra vegani e onnivori. Vi comunico già che la soluzione non c’è, o meglio, c’è ed è sempre la solita: moderazione nei consumi, questo è l’unico modo per uscirne, forse, vivi. Per il resto ci sono pro e contro da entrambi i lati e, ultimamente, anche diverse alternative. Andiamo con ordine…

Pelle & Caverne…

La pelle è uno dei primi materiali che l’uomo si è buttato addosso. Frutto delle battute di caccia e del sacro principio del “non si butta via nulla“, i vestiti in pelle sono i primi esemplari di capi “fashion“, tra l’altro progettati in un’ottica zero-waste: non venivano tagliati, non venivano cuciti, non c’era cartamodello e assolutamente non c’era nessun tipo di spreco! In tutti i sensi. Anche quantitativi. I problemi legati alla produzione di capi e accessori in pelle sono arrivati con l’aumento della richiesta, che ha portato poi alla creazione del movimento per la difesa degli animali ed il loro trattamento. Secondo un articolo di Lucy Siegle, giornalista e scrittrice, “290 milioni di mucche vengono uccise all’anno per coprire le nostre necessità attuali e questo numero potrebbe duplicarsi nel prossimo decennio“. Il volume di produzione così elevato va, ovviamente, ad intaccare la vita ed il trattamento degli animali (e questo non è per niente bello). Ma il problema della pelle non finisce qui: ad aggiungersi alla lista delle controindicazioni troviamo tutta una serie di sostanze chimiche coinvolte nel trattamento di questo materiale che sono parecchio inquinanti se non gestite nel modo corretto. Ovviamente questo tipo di deregolamentazione lo ritroviamo nei paesi in via di sviluppo, dove il controllo per lo smaltimento dei rifiuti è praticamente inesistente. Questo non ci dovrebbe far dormire sonni tranquilli perché “vabbè, tanto è dall’altra parte del mondo“; perché qui tutto il mondo è paese, siamo collegati dal mare e queste sostanze girano alla velocità della luce…

Per ovviare alla chimica invadente (generalmente cromo e metalli pesanti della concia tradizionale) si è sviluppata nel corso degli anni la concia vegetale: realizzata con i tannini vegetali, sostanze che sono largamente presenti nella frutta, quali melograno, lamponi e mirtilli rossi, nonché in numerose bevande che assumiamo ogni giorno, come il tè e il vino rosso. Queste sostanze sono estratte con metodi ecosostenibili: “per il tannino di Tara è sufficiente macinare i baccelli fino a ridurli in polvere, mentre per il tannino di castagno o di quebracho il legno viene sminuzzato in chips che, a contatto con acqua calda, rilascia il tannino in soluzione, come se fosse un’infusione“. Oltre al suo essere trattata con sostanze vegetali, ci sono anche altri vantaggi: i fanghi di scarto possono essere recuperati e usati per fabbricare materiale edile; oggetti e capi creati con pelle conciata al vegetale durano una vita e pure di più; una volta ridotti all’osso, possono essere smaltiti e trasformati in fertilizzanti utili per l’agricoltura. In un modo o nell’altro ritornano in circolo…

Pelle Plastica…

Dall’altro lato è arrivata la “finta pelle“, detta anche in maniera impropria “eco pelle” o “simil pelle” o “pelle vegana“. In poche parole è PLASTICA! Libera da qualsiasi elemento di origine animale, trattasi di un prodotto frutto di decenni di evoluzione industriale che ha fornito un’alternativa vegana e a basso costo per il mercato del pronto moda. Prodotta con cloruro di polivinile (PVC) o poliuretano (PU), tutti parenti del petrolio, non è certo immune dall’uso di sostanze chimiche tossiche. Ma il problema non è solo quello: è la quantità di tempo che ci metteranno a biodegradarsi!!! Quindi, a discapito del nome e di come è stata commercializzata nel corso degli anni, l’eco-pelle è plastica e la plastica fa insorgere tutta una serie di problemi che ben sappiamo (e se non sappiamo, l’articolo che spiega tutto è sempre qui).

Alternative: gli amici Funghi&Co.!

Fortunatamente la tecnologia e l’innovazione vanno avanti, così come le ricerche e le sperimentazioni in ambito tessile e biotecnologico. Nuove alternative si stanno sviluppando utilizzando risorse biodegradabili: da elementi come il sughero, il legno ed i funghi; fino a foglie e frutti di diverse piante come il teak, l’ananas o i cactus; per poi arrivare a sostanze di origine batterica come quelle ottenute con il tè di soia e la kombucha… La “biofabbricazione” della pelle in un laboratorio che utilizza cellule e proteine sta facendo decisamente un sacco di passi in avanti, innovando processi e materiali in un’ottica circolare e meno impattante.

È in questo scenario a tratti surreale (tirare fuori pelle dalla buccia di ananas sembra un film di fantascienza, eppure è reale) che spuntano fuori i funghetti, come elemento magico, ancestrale e decisamente fashion! Prima di arrivare alle collezioni di Stella McCartney, Iris Van Herpen e Hermès, solo per nominarne alcune, è bene capire chi sono questi Fantastic Funghi e perché li sentiamo nominare in diversi contesti…

Spore e funghi sembrano essere antichi come il mondo e pare che già i primi homo presenti sulla Terra li avessero intercettati subito per le loro proprietà, tra le quali sì, c’è anche quella di essere un potente psicoattivo (allucinogeno). Ma è sempre negli anni 60 che si sono approfondite queste proprietà, dovei funghi si sono fatti strada verso le scoperte medicinali e le tradizioni religiose. I cinesi, ad esempio, sono molto fiduciosi nel potere curativo del fungo reishi o “fungo dell’immortalità”: è il fungo più antico utilizzato nella medicina cinese che apporta numerosi benefici al sistema immunitario umano. Nonostante alcune ricerche hanno anche evidenziato che alcuni funghi possono danneggiarci notevolmente, il loro valore è sempre più riconosciuto; vengono infatti coltivati per i loro scopi medicinali e applicati anche come trattamento per terapie legate ai traumi e a problemi della psiche. Tra l’altro. Ma il loro impiego non si ferma lì: alcuni scienziati hanno iniziato ad utilizzare il micelio, la parte filiforme del fungo, per sostituire gli imballi in plastica. Negli anni 90 il designer Phil Rose ha realizzato addirittura tavoli, poltrone e mattoni…Dalla medicina alla cosmetica, fino ovviamente all’industria alimentare, dove i funghi prosperano sul mercato alternativo come caffè, succhi di frutta, birra e sostituti della carne. Con il boom dei prodotti a base vegetale, il fungo si sta davvero facendo strada per diventare gli ingredienti ricercati e un investimento di capitale di rischio.

La domanda non è, ‘Cosa possono fare i funghi? È, ‘Cosa vuoi che faccia?’ I funghi sono agenti di trasformazione nel vero senso della parola.“—Phil Rose

Ed ecco i simpatici funghetti approdare anche al mondo della moda come alternativa alla pelle, sia quella di origine animale sia quella finta. Ne avevo accennato parlato di bio-materiali. I signori della Bolt Thread, tra i quali il suo CEO, Dan Widmaier, hanno notato il disperato bisogno della moda si avere un’alternativa ecologica alla pelle. È dal 2009 che la sua azienda è entrata nel settore introducendo i funghi nel mondo della moda. Otto anni dopo, nel 2017, l’azienda ha collaborato con Stella McCartney per creare un abito ecologico realizzato con proteine ​​della seta filate dai ragni. Immediatamente dopo è arrivato Mylo, una simil-pelle derivata dai funghi. Un processo che richiede un uso minimo di energia e di acqua, dando vita ad un materiale forte, duraturo, flessibile, resistente ed impermeabile. Oltre al fatto che è interamente biodegradabile e compostabile. Più circolare di così!

La produzione di questo materiale è ancora in fase di sperimentazione, ma marchi come Stella McCartney, Hermes e Adidas, tra agli altri, hanno subito approfittato per realizzare collezioni con Mylo (che per ora rimane appannaggio di grandi marchi e piccole collezioni). La EDEN Power Corp, altra azienda che si sta specializzando in questo materiale, invece, ha deciso di collaborare anche con piccoli artigiani. Fin qui tutto bene. Il limite? La limitazione della produzione di tessuto (perché la chiamiamo pelle, ma pelle non è) di micelio è dovuta ai processi agricoli utilizzati per coltivare i funghi: è molto simile alla produzione di vini o formaggi, e richiede un controllo costante della temperatura, dell’umidità ed altri fattori ambientali.

Borsa Hermes realizzata con Reishi 2020, materiale derivato dai funghi.

Che i funghetti siano i salvatori di questo mondo moderno?!? Non lo so. Ma per loro natura, essendo su questo pianeta da milioni di anni, osservandone la natura, i colori, la forza, l’adattabilità, e valutandone le proprietà (biodegradabili, commestibili e dotati di proprietà medicinali), credo che i funghi continueranno ad essere un ottimo spunto ed un ottimo strumento. Anche per la moda.

Fungo in casa abbandonata cresciuto in una crepa. Foto di Mauro Puccini durante lo shooting per Weave Magazine

Must HAD: puntare su quello che già esiste!

Chi mi segue lo sa quanto detesto l’espressione “must have“: ho un grosso problema con il must, ovvvero “devi” e con quanto questa locuzione piccola e sibillina rappresenta nel mondo della comunicazione della moda. Quello che “devi avere” è una spinta costante ai consumi che, stagione dopo stagione, invita a comprare qualcosa di nuovo ed irrinunciabile per non sentirsi “fuori” dal gruppo di quelli cool. PAUSA riflessivia. La storia di MUST HAD, piattaforma italiana dedicata esclusivamente al mondo dell’upcycling, è diversa e vuole ribaltare concretamente il paradigma.

Compie un anno domani il portale Must Had, start up ideata da Matteo, Eugenio e Arianna; tre amici con tre passati formativi differenti (marketing, moda e green management) che si sono ritrovati uniti nel progetto di creare qualcosa che avesse fosse in grado di interrompere la ruota dei consumi ed instillare gocce di consapevolezza attraverso la promozione dell’upcycling come alternativa concreta ai soliti Marchi Noti, più o meno Fast. “La nostra missione è quella di trasformare il problema dei rifiuti tessili in un’opportunità, favorendo l’offerta di capi di abbigliamento e accessori unici ottenuti attraverso la rigenerazione di rimanenze di magazzino e usato“. Il padre di Arianna, grande customizzatore di capi in cachemire, è stata la prima ispirazione: perché dunque non cercare di raccogliere altri creativi e marchi che seguissero la stessa filosofia? Ed eccoli comparire tutti in un contenitore digitale: un network che mette in luce le potenzialità e le differenti sfumature del progettare moda partendo da quel che c’è già. “Siamo fortemente convinti che la vera sostenibilità parta dal riutilizzare ciò che già esiste, e da qui nasce il nostro motto everything deserves a second chance.

Il sito è una vetrina per il mondo del refashion, ma anche uno shop dove poter supportare attivamente i brand e contribuire ad un guardaroba unico, originale e dall’impatto ambientale e sociale ridotto. Ma l’impegno di Must Had non si ferma qui: “oltre all’attività di marketplace, abbiamo dato vita a un servizio parallelo chiamato “Close the Loop”, dove Must Had recupera personalmente abbigliamento usato o invenduto da privati o dai magazzini di brands e negozi per poi distribuirli alla nostra rete di Refashion brand che gli darà una nuova vita. Questi prodotti sono poi venduti sulla piattaforma sotto il brand Close the Loop.” Praticamente una collezione di pezzi unici, artigianali e di qualità che danno veramente un nuovo valore al capo originario.

Ogni prodotto che viene acquistato porta con sé una storia che viene raccontata sul sito garantendo la massima trasparenza: dallo scarto di origine fino al processo che ha portato alla rigenerazione di esso.”

Dal web alla MFW…

Già, la storia…ma la pratica? Spesso il procedimento che c’è dietro alla realizzazione di questi capi e oggetti rimane oscura ai più. Ecco che in occasione della Milano Fashion Week, tra una sfilata ridondante ed eventi dedicati al digitale, all’interno del Lotto 11 della Fabbrica del Vapore, si potranno osservare le mani in azione durante il Vernissage del Refashion organizzato da Must Had.

Un evento dove si potranno guardare e toccare con mano le creazioni di alcuni dei brand presenti sul portale, “mettendo in primo piano la storia ed il know- how che hanno permesso a diverse tipologie di scarti di riacquisire valore e trasformarsi in arte.” Ma non solo: facile vedere il prodotto finito, ma il processo? In questa occasione sarà possibile vedere le mani muoversi e nuovi capi prendere vita, live. Ci sarà Culo Camicia (che amo di già!) che trasforma vecchie camicie in boxer, Operamia che impreziosisce denim e pelle con disegni dipinti a mano, ed Emina che interviene su vecchi capi applicando la tintura botanica, il batik e lo shibori. Dimostrazione concreta che quel che si possiede già si può continuare a possedere in una veste diversa 😉

L’evento è aperto al pubblico (basta registrarsi qui) e, chi vuole, è assolutamente invitato a portare vecchi capi inutilizzati sui quali, su richiesta, i marchi potranno eseguire delle rigenerazioni personalizzate, dando loro una nuova vita e rendendoli unici. Possono anche essere semplicemente donati a Must Had che si impegnerà per dargli una seconda vita e rimetterli in vendita sulla piattaforma, offrendo uno sconto del 15% in cambio di ogni donazione.

Insomma, se fossi da quelle parti sarei già lì. Visto che sono fuori mano, andate voi a dare una sbirciatina per me?!? 😉

I brand presenti sono:

  1. Culo Camicia
  2. Operamia
  3. Emina
  4. Laboratorio Luparia
  5. Masha With Maria
  6. Ritagli di G
  7. Silent People
  8. Skinsbelts
  9. Nasco unico
  10. Francesca Marchisio

Grandi eventi e la moda: perché gli artisti sono vestiti sempre dai soliti noti?

Si è appena concluso il Santo Festival Nazional-popolare della canzone italiana e no, tranquilli, non starò qui a fare inutili pagelle con la penna rossa dando i voti ai look più cool e facendo grosse croci su quelli out! Mi fa così anni 90 (che poi ognuno esprime giudizi e pareri in base alla propria sensibilità, il canone universale non esiste, quindi vabbè). Il mio cruccio, qui, è un altro. In un articolo di Giuliana Matarrese leggo “Il risultato è stato che, più che un palcoscenico, l’Ariston è diventato una italica passerella sulla quale la moda italiana (ma anche straniera) ha passeggiato con un certo orgoglio, ammiccando ad un pubblico che, prima di allora, non si era mai sintonizzato sui canali di mamma Rai per l’occasione.” E ci sta che i marchi si siano convinti che l’esposizione mediatica su quel palco possa essere una buona azione di marketing. La domanda invece, mi sorge spontanea: perché nessun cantante/artista indossa abiti di brand indipendenti/slow e si finisce sempre sulle grandi maison? Andiamo con ordine…

Celebrity, talent e Influencer come strumento di marketing

La Moda si è sempre appoggiata a personaggi “in vista” per moltiplicare il suo messaggio e raggiungere un più ampio pubblico possibile. Luigi XIV è stato uno dei primi trend setter della storia, seguito da Regine e Dame, modelle e prime influencer del regno, incaricate di incarnare lo stile del tempo, essere ammirate e sopratutto imitate da nobildonne e cortigiane. Il resto è storia e non ve la farò così lunga, ma il gioco è chiaro: testimonial del mondo cinematografico, televisivo e musicale sono sempre stati ingaggiati dai brand come loro messaggeri. Ad aggiungersi in questo panorama anche figure uscite dal mondo social, dalle ormai antiquate fashion blogger fino a più contemporanei Tik-Tokker ed Influencer varie. È un modo per creare una connessione tra brand e pubblico, utilizzando l’esposizione mediatica di questi personaggi ed artisti (per questo motivo andrebbero scelti con cura), principalmente durante eventi speciali: dai red Carpet di Venezia fino a quelli della notte degli Oscar, passando dal Met Gala agli MTV Awards…fino a Sanremo! Ebbene sì, quella scalinata che fino a qualche tempo fa era stata snobbata, adesso è un punto che fa gola a marchi e anche ai cantanti stessi (dopo un momento di stallo dei concerti e della musica dal vivo, anche i musicisti hanno visto nella moda un modo per guadagnare, diventando di fatto “volti” di un brand: basta pensare al caso Achille Lauro con Gucci…che poi, zitti zitti, si sono andati ad acchiappare pure i Maneskin 😉 ).

Come si incontrano brand&artisti: pr, stylist & co.

Partiamo da un dato di fatto: quasi tutti gli artisti (dove qui ci mettiamo attori, cantanti, personaggi radiofonici, della tv e dello spettacolo, ma anche scrittori, sportivi ed influencer di varia natura) sono rappresentati da agenti e manager (eh, mica fanno tutto da soli!!!) e di solito dispongono anche di un ufficio stampa dedicato. Nel nostro Paese le agenzie sono diverse, ma più o meno “nel settore” si conoscono un po’ tutti. Ecco perché principalmente è un gioco basato sulle antiche PR, relazioni pubbliche, amicizie, conoscenze, chiacchiere agli aperitivi milanesi…Ed in questa jungla di persone che si muovono per promuovere Questo o Quella, sono arrivati anche gli Stylist. O meglio, la figura dello stylist è una figura che vediamo da tempo immemore nelle redazioni delle riviste di moda, responsabili delle combinazioni di capi e look proposte negli editoriali. Usciti dalle redazioni, i celebrity stylist sono coloro che si prendono cura dei look dei propri clienti da sfoggiare in tutte le apparizioni pubbliche, cercando di creare uno stile riconoscibile che rappresenti l’evoluzione della carriera e dello status della star. Lo stylist è la figura chiave, il tramite tra le case di moda e le celebrità (reali o wanna be).  Sono degli abili costruttori di immagine, furbi connettori tra brand e persone, che nel tempo sono riusciti a far emergere svariate figure, tanto che spesso gli stylist diventano “famosi” quanto i loro clienti (ecco perché poi si fa la corsa anche ad accaparrarsi lo stylist più bravo del momento).

Non è un mestiere semplice, ci vuole gusto, creatività e anche una bella dose di sfacciataggine ed essere un bel pr. Molti stylist lavorano per grandi agenzie che offrono tutte le figure necessarie alla creazione di un personaggio: dal make-up artist, all’ hairstylist, fino ai fotografi, che vengono definiti loro stessi “artisti”. Insomma, nulla è lasciato al caso. Ecco perché a finire sui palchi e sui carpet degli eventi ci sono combinazioni frutto di idee precedentemente studiate da persone che calcolano ogni dettaglio in base al risultato sperato. E anche in base al fattore economico economico (nessuno, fino a qui, ha lavorato gratis, e sì, gli artisti prendono soldi dai brand)!!! E tutti, qui, lavorano per la loro immagine: lo Stylist Gigetto Fashionetto che riesce a vestire Lola La Strappona con un total look Dior (se ha fatto un buon lavoro) è Figo! Ci siamo capiti?!? 😉

Il problema dei “soliti noti”

È quasi automatico che gli Stylist si rivolgano alle grandi case di moda. Sono più prestigiose, più in vista, più autorevoli ed anche economicamente più appetitose. Se un artista, oltre a vestire un brand per un evento, ne diventa anche testimonial per una campagna, iniziano a girare diversi soldi. Per tutti. E si torna sempre lì: si va sempre a finire dove gira il cash!!! Un meccanismo difficile da interrompere, perché tutto funziona alla perfezione e perché, diciamoci la verità, chi è che si prenderebbe la briga di scommettere su emergenti dotati di talento ma di poche finanze? Quale sarebbe il vantaggio?

Indubbiamente per fare il “talent scout” ci vuole occhio lungo e anche una buona dose di coraggio. Per supportare chi veramente ha bisogno di supporto e non è inserito nel “giro giusto” ci vuole una sorta di illuminazione, quasi una vocazione direi io, che non è da tutti. Eppure il poter degli stylist e degli artisti è importante al fine della percezione dei marchi (e dell’approccio alla moda). O insomma, aiuta! Ecco perché, per come la vedo io, anche queste figure sarebbero fondamentali per il cambiamento del sistema in una direzione più slow. O comunque per mostrare l’altra faccia della medaglia, che la moda non é solo fatta di grandi marchi o fast fashion.

Sfidare un le convenzioni e puntare su altri tipi di brand, quelli che stanno realmente innescando un cambiamento, è una bella scommessa anche per stylist&co. Ovvio che c’è quel delizioso scoglio economico da superare. Non fraintendiamo, nessuno ha la pretesa che il lavoro venga fatto in maniera gratuita, ma ci vuole un investimento, un po’ di ricerca e la voglia di fare davvero la differenza.

È un po’ quello che è successo quest’anno per Dargen D’amico, uno dei pochi a sfoggiare look speciali cuciti addosso per lui da una serie di brand emergenti selezionati per lui dallo stylist Giulio Casagrande. Alessandro Vigilante, Federico Cina, Wayerob e Canaku. Nomi poco noti al grande pubblico, alcuni più noti ad una nicchia di attenti al settore (Federico ha vinto il LV Price nel 2019), alcuni comunque rappresentati già da Showroom e tutti con l’appoggio della signora Sara Sozzani Maino (head of special projects di Vogue). Emergenti sì, ma del circolo giusto. Alternativi ma ben inseriti 😉 Ma se uno il giro non ce l’ha, come fa a farsi vedere?!? …

Ho apprezzato molto la scelta di Drusilla Foer, quella di avere un paio di abiti confezionati ad hoc dalla sartoria Rina Milano di Firenze, mentre gli altri facevano parte del suo archivio personale. “Drusilla in conferenza stampa ha affermato infatti quanto sia importante attingere al proprio guardaroba per evitare sprechi scegliendo abiti che durino (davvero) per la vita.” E aggiunge “Dobbiamo far passare il segnale che l’economia italiana deve ripartire dal basso, dalle sartorie, dagli atelier piccoli“. Ed io non potrei essere più d’accordo…

Ripartire dal basso…ma a modino (una bacchettata ai piccoli)

Ripartire sì dal basso, ridare lustro ai piccoli brand, alle sartorie, all’artigianalità e ai designer indipendenti che si prendono rischi e impegni per dire la loro in una maniera differente: bisogna trovare il modo per far vedere che “l’altra moda” esiste. Ed è Moda con la “m” maiuscola. Per fare ciò, però, anche i più piccoli devono metterci del loro: essere tecnicamente bravi o molto creativi ma non saper comunicare il proprio lavoro è davvero contro-producente (fare dei capi stupendi e fotografarli con il telefono nel giardino di casa con il secchio della spazzatura in sottofondo, per esempio). Essere piccoli ma con lo spirito grande. Essere indipendenti ma con un approccio imprenditoriale professionale. Solo così si riesce ad essere credibili e riuscire ad intercettare gli sguardi anche di quegli stylist o fashion editor che potrebbero far fare il salto. Ammesso che in Italia (a parte noi del team di Weave Magazine, rivista interamente dedicata alla slow culture) ci sia qualcuno disposto veramente a scommettere sui nuovi ignoti…;)

Se c’è qualcuno pronto a scommettere, si faccia avanti. Io ho in mente un paio di piani…e conosco anche svariati brand a disposizione!

La moda che non si tocca: Metaverso, NFT e gli oggetti che non esistono

Mi sono avvicinata a questo argomento in punta di piedi, osservando, cercando di capire, mettendomi nei panni di nativi digitali (altra generazione rispetto alla mia) e guardando questa novità sotto svariati punti di vista. Nonostante ciò, sono ancora molto perplessa e le domande continuano a balenarmi in testa, in ordine sparso: abbiamo veramente bisogno di un mondo parallelo? Perché devo spendere soldi per qualcosa che non esiste? È veramente una risposta al problema della sovrapproduzione? Si tratta di un fenomeno passeggero o di qualcosa sulla quale conviene puntare? Andiamo con ordine…

Metaverso

Wiki mi dice che “Metaverso è un termine coniato da Neal Stephenson in Snow Crash (1992), libro di fantascienza cyberpunk, descritto come una sorta di realtà virtuale condivisa tramite internet, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.” Una sorta di mondo parallelo, dove evadere per brevi momenti di distrazione, un video-game costruito ad arte dove poter diventare i protagonisti pixelati di mondi immaginati. Poi è arrivato Mark, a cambiare il nome della sua gigante compagnia da Facebook a Meta…e già qui mi spavento: quando le aziende appaiono anche nei mondi virtuali, mi puzza di replica del mondo reale. Un po’ come se la Coca Cola mi entrasse in un sogno, di proposito: scansati!!! Potrò avere il potere di creare un mondo di fantasia tutto mio dove le Mega Aziende non esistono? Pare di no…

In ogni caso si tratta di un cambio di approccio alla fruizione tecnologica: se fino ad oggi ci siamo limitati ad interagire online andando su siti web o attraverso i social media e app, con il metaverso si apre un ventaglio di possibilità di interazioni multidimensionali, dove gli utenti sono in grado di tuffarsi completamente nei contenuti digitali invece che semplicemente vederli. Praticamente le persone possono incontrarsi, lavorare e giocare (voglio dire, se proprio devo avere un mondo parallelo io il lavoro lo avrei anche lasciato da parte 😉 ). Le potenziali attività disponibili online sono svariate: si può assistere virtualmente ad un concerto, fare un viaggio online, comprare e provare vestiti digitali. All’interno del metaverso, gli utenti potranno acquistare terreni virtuali e altri beni digitali utilizzando presumibilmente le criptovalute. Basta dotarsi di un paio un cuffie, gli occhiali per la realtà aumentata, app per smartphone o altri dispositivi e siamo pronti per vivere in qualunque luogo comodamente svaccati sul divano di casa (nel frattempo abbiamo comprato cuffie, occhiali e tutti i dispositivi necessari…ci hanno già fatto spendere prima ancora di entrare). Sul fatto che tutti questi dispositivi consumano sempre più energia elettrica ci tornerò in un secondo momento, ma intanto è opportuno tenerlo a mente.

NFT (Non – Fungible – Token)

NFT, che sta per non-fungible-token (in italiano gettone non replicabile) è un certificato “di proprietà” su opere digitali. Provo a rendere il concetto potabile. Si tratta di un codice crittografico che rappresenta l’atto di proprietà e il certificato di autenticità scritto su Blockchain di un bene unico (digitale o fisico). A differenza delle criptovalute che sono fungibili e si possono usare, gli NFT non sono intercambiabili. Vengono usati soprattutto per oggetti digitali unici come cripto art, oggetti da collezione digitali e giochi online. Ad approfittarne subito è stato il mondo dell’arte (per fornire prove di autenticità e proprietà dell’arte digitale) ma anche la moda è arrivata a ruota.

Quindi? Ti compri un file, un’opera, un oggetto virtuale? No, in realtà ti stai comprando un certificato che ti consente di tenere traccia e provare la proprietà della copia digitale acquistata. Ovvero la possibilità di dimostrare un diritto sull’opera (che però non è il diritto d’autore, quello se lo tiene l’artista che avrà la possibilità di sfruttare economicamente un numero indefinito di volte la propria opera venendo remunerato per l’acquisto di un token ad essa collegato). Praticamente come comprarsi una stampa autenticata ma non la litografia originale, ad esempio. Solo che è virtuale. Non c’è. Però è “mia“. E lo posso dimostrare facendomi bello nella mia casa virtuale a Miami dove ho un corridoio pieno di opere d’arte incredibili…che non esistono. Ma che hanno anche altri…

Già, perché penserete mica di essere gli unici proprietari di un NFT? It’s a business, baby! Come funziona praticamente? Si fa una versione digitale dell’opera d’arte. Praticamente una foto digitale o una documentazione filmata. Poi viene compressa da piattaforme apposite (tipo Open Sea o Nifty Gateway o Criptokitty) in una sequenza, chiamata hash, che poi viene memorizzata su una blockchain. Da qui in poi si ha la possibilità di venderlo in cambio di un pagamento in criptovaluta (anche qui se non hai cripto non compri, un po’ come nel mondo reale no, dove niente soldi, niente acqusiti). Alcune opere hanno dei prezzi esorbitanti, poi c’è Gucci che vende NFT delle sue sneakers a 13$. Insomma, anche nel Metaverso c’è un po’ di tutto…

La moda nel Metaverso

Il Metaverso non è un mondo migliore, questo è chiaro. È virtuale, ma guarda caso si sviluppano le stesse dinamiche del mondo reale. Gli avatar giocano, socializzano e fanno pure shopping. Mica vogliono essere sciatti?!? Ed ecco apparire gli NFTs della moda sotto forma di accessori e capi che possono essere acquistati senza paura di inciampare in articoli finti, visto che ogni articolo è verificabile sulla blockchain.

Un’occasione molto appetibile per i marchi della moda e del lusso, perché la realtà virtuale potrebbe garantire un nuovo flusso di entrate: non solo tramite la vendita di prodotti fisici, ma anche vendendo i loro oggetti e vestiti virtuali su un mercato decentralizzato. Oltre a permettergli di raggiungere un pubblico ancora più ampio (già con internet e i social si erano espansi, ma sembrava non bastasse). La caccia alla Generazione Z non si ferma: questi giovani nati sulle tastiere dei dispositivi elettronici hanno effettivamente la testa più dentro ai giochi e ai social che nel mondo reale, perché non farceli stare un altro po’ e nello stesso tempo diventare i loro migliori amici spingendoli poi ad acquistare? Non fa una piega a livello strategico. Negli ultimi anni l’industria della moda si è concentrata su l’intersezione tra il mercato digitale e fisico, espandendosi sempre di più in quest’ultimo, portando a due diversi approcci alla moda digitale:

  1. Fisico e digitale combinato: che è la moda digitale che una persona può indossare facendo uso della realtà aumentata o virtuale
  2. Fully digital: che è la moda digitale che viene venduta direttamente a un avatar.

Un esempio in questa direzione è la collaborazione tra Balenciaga e Fortnite, la quale ha reso possibile acquistare abiti ispirati a vari disegni Balenciaga, all’interno del gioco. Anche Dolce e Gabbana ad Ottobre hanno rilasciato una collezione digitale composta da nove capi di abbigliamento NFT, chiamandola “Collezione Genesi” (venduta per circa 5,7 milioni di dollari, mica briciole)!

La collaborazione con l’industria del gaming permette a stilsti e designer di darsi alla pazza gioia, esprimendosi creativamente in maniera esuberante (dopotutto si tratta di disegni, non di abiti reali, e nei disegni tutto è possibile, se poi ci mettiamo anche il digitale, allora si può svarionare in tranquillità) e nello stesso tempo offrire agli acquirenti la possibilità di mettere le zampe su un capo fisico in edizione limitata, come quello presente nel gioco.

Ma in fondo, cosa rimane?

L’esperienza? L’evasione? Il divertimento? Il certificato di proprietà di un oggetto che non c’è che però è autenticamente inesistente garantito da un marchio che si è permesso di entrare nel mio mondo virtuale per continuare a fare il suo business consumando energia?!? La moda che comunque mi chiede di apparire ed essere anche in un universo parallelo? Mah…

…probabilmente il mio essere cresciuta nella “golden age” (gli anni 90) non mi permette di comprendere ed apprezzare il fenomeno fino in fondo. L’entusiasmo iniziale si dissolve pensando a quanto questo possa essere l’ennesimo mezzo di distrazione di massa, potentissimo, che ci allontana sempre di più dalla percezione di noi stessi, del mondo circostante, dalle sensazioni fornite dai nostri 5 sensi (fino a che siamo ancora in grado di sentirli), dalle relazioni umane genuine con gli esseri umani ed anche con gli oggetti, veri e tangibili, ai quali ci affezioniamo e che ci possiamo portare dietro tutta la vita. Oltre al fatto, non banale, che spendere soldi per cose che non esistono mi sembra un’emerita cazzata! O_o

Tu che ne pensi? Ti metto qui il link all’articolo di una mia amica/collega che stimo molto e che fornisce altri interessanti spunti di osservazione

Perché le etichette dei capi non sono come quelle dei cibi?

Perché siamo più interessati a quello che ingeriamo invece che a quello che ci mettiamo addosso? Il cibo è il nostro motore e sempre più persone si stanno (finalmente) convincendo che molti dei problemi che intaccano il nostro fisico derivano da quello che mangiamo; si presta attenzione alle etichette, si leggono gli ingredienti o si usano app. studiate per valutare i prodotti in base a tutta una serie di parametri (ormai quando faccio la spesa uso sempre Yuka 😉 ). Eppure dimentichiamo che la pelle è il nostro organo più esteso e che tramite i simpatici pori può entrare in circolo di tutto. Dalle mutande, che ricoprono le nostre parti più intime, fino all’ultimo strato, non sarebbe forse il caso di stare più attenti anche a quello che indossiamo?

Forse sì. Ma come? Per anni le etichette dei vestiti si sono limitate a darci informazioni sul Paese dove sono stati realizzati, la composizione e le poche istruzioni di lavaggio. Dettagli sommari che non ci dicono niente sul dove provengono le fibre, sul come sono state trattate e sul tipo di trattamento riservato ai lavoratori. Insomma, non ci permettono di fare scelte ponderate e calibrate sull’impatto ambientale e umano di quel capo, né tanto meno sul tipo di trattamenti e sostanze chimiche usate per produrlo. Probabilmente verrebbero fuori delle etichette lunghe un Km, ma almeno avremmo il quadro completo per scegliere con cognizione di causa! Perché, quindi, non è stato fatto fino ad ora? Perché i panni sporchi si lavano in casa ed ognuno ha l’interesse a mantenere i propri scheletri be nascosti nell’armadio! 😉 Le questioni alla base sono due. La prima, forse la peggiore, è l’ignoranza: alcuni marchi, delocalizzando la produzione dall’altra parte del mondo, si disinteressano di quello che c’è dietro alle fabbriche dove producono i loro pezzi (o fanno finta, nella maggioranza dei casi). La seconda è una sorta di gelosia produttiva, dove svelare fornitori e produttori diventerebbe una condivisione pericolosa di informazioni (uh, e se poi qualcuno copia?!?) Insomma, per mettere nero su bianco un po’ di impegno ci deve essere. Ma è proprio questo impegno che sempre più clienti valutano prima di fare acquisti…ed è su quello che bisognerebbe puntare. E c’è già chi lo fa…

ll marchio di moda etica Nisolo ha lanciato una “Sustainable Fact Label” che consente ai consumatori di verificare l’impatto che ogni prodotto ha sul pianeta e sulle persone che lo producono. L’etichetta – che include un codice QR che collega a 200 punti dati su questioni ambientali e di diritti umani – sarà attaccata a ciascun prodotto Nisolo in modo che i clienti possano comprendere meglio l’impatto dei prodotti che acquistano in maniera immediata (possono utilizzare il QR ma in assenza di rete si può leggere tutto sull’etichetta stampata, una specie di bugiardino medico dove sono riportate tutte le informazioni del caso). Chi e come sono valutati i vari parametri?

Ci sono voluti ben quattro anni di ricerca per mettere a punto un metodo ed arrivare ad uno strumento utile e comprensibile, che sia in grado di fare la vera differenza tra chi “dice” e inventa slogan appariscenti per continuare a gettare fumo negli occhi, e che “fa” in maniera sicuramente non perfetta ma almeno trasparente!!! Uno strumento utile sia per il cliente ma anche per il brand, che in questo modo ha una cartina tornasole di verifica per controllare realmente la direzione in cui sta andando e come/dove c’è margine di miglioramento.

Ma non è l’unico marchio ad essersi mosso in questa direzione. Nel 2019 la Sheep Inc., un brand di maglieria con sede a Londra, introdusse una etichetta NFC (Near Field Communication, ovvero la stessa tecnologia che si usa per i pagamenti contacless) che, scansionata tramite una app., dava informazioni su tutta la filiera dei suoi maglioni in lana Merino. Da che pecora viene la lana (compreso giorno di nascita e ultime vaccinazioni), in che giorno è stata tosata, che giro ha fatto la lana dal campo al lanificio, fino al maglificio che lo ha prodotto. Insomma, ci facciamo il giro del maglione dalla pecora fino alla gruccia!!!

Nel 2021, invece, è stata la volta del Principe Carlo, il quale ha presentato la sua “Digital ID“, capace di tracciare tutto il percorso di un prodotto, dalla sua creazione fino alla vendita ed eventuale rivendita (attualmente la stanno testando marchi come Armani, Mulberry e Chloé). Anche in questo caso si tratta di una App. che offre dettagli sulla composizione e sull’autenticità del prodotto (che la contraffazione è un altro problema), che risulta utile anche nel caso in cui il capo vada a finire in un negozio vintage o di seconda mano (in questo caso chi non è espertissimo in materia avrebbe comunque modo di avere accesso alle informazioni senza il rischio di essere “fregato”).

Non ultima la start-up Provenance, che ha sviluppato un software capace di tracciare la catena di approvvigionamento, dal campo dove viene raccolta la fibra fino al capo finito (Ganni è stato il primo brand ad usarla). Questa è accessibile direttamente dal sito web del marchio, dove cliccando su parole chiave si potranno avere le informazioni sull’uso di acqua ed emissioni di Co2 emesse per produrre il capo; ma anche visualizzare su una mappa dove si trova la fabbrica che li ha prodotti. L’idea è di attivare un QR code da stampare direttamente sul cartellino.

I sistemi sono differenti, ma approfittano più o meno tutti del mondo digitale per creare una connessione immediata tra il capo che noi abbiamo in mano in un negozio ed i riferimenti online legati alla produzione del prodotto stesso. Una idea, questa del “passaporto digitale” che è stata ampiamente commentata sia durante la Fashion Taskforce dell’ultimo G20 che si è svolto a Roma, ma che è anche nei programmi dell’Unione Europea per portare finalmente un po’ di sana e onesta trasparenza anche nel mondo della moda. Ovviamente si tratta di progetti pilota e di work in progress, dove i primi interessati sono i colossi del lusso e dell’ e-commerce come Yoox – YNAP. Meno interessati sembrano essere i giganti del fast fashion (chissà come mai?!?) e quasi inaccessibili certe tecnologie alle piccole, medie e micro-imprese. Ma effettivamente potrebbe essere un ottimo strumento per fare acquisti intelligenti…se poi si riuscisse ad avere un formato unico condiviso a livello internazionale (come quello dell’industria del cibo), allora sì che il sistema sarebbe funzionale e funzionante. Per tutti.

Ho pensieri contrastanti in merito. A volte penso che sarebbe una figata poter avere il quadro completo dell’oggetto che sto acquistando; dall’altra parte mi dico che “si stava meglio quando si stava peggio” e con un po’ di sana ignoranza era tutto più leggero. Anche lo shopping. 😛

Poi torno in me e aspetto pazientemente l’evoluzione di questa storia. Che comunque presenta dei lati oscuri…ma ve li racconto la prossima settimana!

Il linguaggio segreto delle etichette Part.2

Le etichette sono come la carta di identità di un indumento: ci raccontano un po’ cosa stiamo comprando! Ne avevamo già iniziato a parlare in questa sede, ma le cose evolvono, i simboli si moltiplicano e, nel frattempo che aspettiamo i QR scansionabili inseriti direttamente nei cartellini, bisogna imparare a destreggiarsi con sigle&disegni che tentano di raccontarci qualcosa in più! Andiamo con ordine…

Questa ce l’abbiamo presente un po’ tutti.

Forest Stewardship Council (FSC) è un certificato internazionale nato principalmente per impedire la deforestazione massiccia con le conseguenze sociali/ambientali connesse a questa pratica. È una sigla che ci racconta che i prodotti che stiamo acquistando provengono da albereti coltivati in maniera sostenibile. Sicuramente l’abbiamo presente nei prodotti di carta, ma si utilizza anche nella moda per quelle fibre derivate dalla cellulosa (come la viscosa e le sue varianti, lyocell e modal). I prodotti che presentano questa certificazione arrivano da foreste controllate, dove il taglio degli alberi viene fatto in maniera appropriata e in molti casi vengono piantati nuovi alberi. Si rispettano gli abitanti delle foreste, tutti, animali e umani, e si garantiscono le condizioni sociali dei lavoratori. Visto che molto spesso i tessuti derivati dalla cellulosa non arrivano da foreste gestite in modo responsabile, buttate un occhio a questa sigla quando andate a comprare qualcosa di nuovo per essere sicuri di non contribuire alla distruzione di importanti polmoni verdi!!!

BLUESIGN® è una certificazione indipendente nata in Svizzera nel 1997, il cui scopo principale è aiutare fornitori, produttori e marchi di moda a ridurre l’impronta ambientale dei tessuti, con particolare attenzione alle sostanze chimiche utilizzate. Qui non si analizza il prodotto finito, ma tutte le fasi di produzione: le sostanze e le materie prime vengono verificate prima del loro utilizzo in una catena produttiva. Bluesign® non solo certifica, ma aiuta anche le aziende a trovare soluzioni per migliorarsi. Per ricevere questo bollino c’è un iter molto lungo che analizza ogni singolo passaggio.

REACH REACH è il regolamento entrato in vigore nel 2007 per tutta Europa che registra, valuta, autorizza e limita l’uso delle sostanze chimiche, andando ad escludere quelle nocive per l’ambiente e per la salute durante tutte le fasi di produzione del prodotto. Si tratta di una vera e propria serie di regole che tutte le industrie sono tenute a seguire: cosmetica, tessile, giocattoli, ecc. Sono state bandite tantissime sostanze nocive ed il regolamento è in continuo aggiornamento. In generale tutti i prodotti realizzati al 100% in Europa hanno un certificato REACH o sono fuori legge. Questo non vale per i prodotti importati dagli altri Paesi. Per esempio se un abito viene realizzato con un tessuto importato dall’India, non abbiamo nessuna garanzia del rispetto dell’uso delle sostanze chimiche se non un’auto-certificazione dell’azienda stessa. E qui bisogna andare sulla fiducia…Ci sono delle evoluzioni in atto, ma per il momento resta ancora il dubbio per quel che riguarda prodotti importati. REACH può sembrare simile a Oeko-Tex; mentre la prima è una normativa obbligatoria, la seconda è una certificazione volontaria (ovvero sono le aziende a doverla richiedere…e pagarla eh)!!!

Teniamo presente che nel settore tessile maggiore è il numero di certificazioni tessili applicate al prodotto finito, maggiore è la sicurezza che quel prodotto sia stato realizzato con minor impatto ambientale, senza sfruttamento e senza presa di culo del consumatore finale! Sono simboli di impegno di un’azienda che dovrebbero ispirare fiducia. Almeno in teoria…

OCS – Organic Content Standard è una certificazione tessile che garantisce l’origine biologica di una fibra tessile. Ovviamente si applica solo ai tessuti naturali (di origine vegetale o animale), ma principalmente viene usata per il cotone. Ne esistono due versioni Organic Content Blended – quando solo il 5% è bio; e Organic Content 100 – quando il tessuto contiene il 95% di fibra bio.

OCS valuta il prodotto il finito (abiti, magliette, ecc) ma segue anche la tracciabilità dei materiali che si usano per realizzarlo. Non tiene conto però degli standard dell’agricoltura biologica, delle sostanze chimiche e della parte sociale della produzione. A differenze della certificazione GOTS, insomma, è un po’ più incompleta. Però ci assicura la presenza di materiale bio.

Global Recycle Standard – o GRS si occupa di certificare le aziende che producono abbigliamento con una determinata quantità di materiale riciclato! GRS certifica sia i prodotti, in particolare lana riciclata/rigenerata, poliestere e poliammide riciclati, cotone rigenerato/riciclato e il cuoio riciclato; sia le aziende produttrici. Si valutano regole ambientali ma anche il rispetto delle condizioni di lavoro. Purtroppo questa certificazione internazionale ha dei limiti: il primo è che si può applicare a prodotti che presentano almeno il 20% di fibre riciclate (un po’ pochine); il secondo è che questa percentuale, che può variare dal 20 al 100%, non è indicata sulle etichette (troviamo solo il logo). Questa certificazione viene applicata al tessuto (fibre tipo Econyl e New Life la possiedono); ma questo simbolo si può trovare anche sui capi prodotti utilizzando quello specifico materiale.

Insomma, la via delle certificazioni non garantisce il 100% di certezze, ma è comunque un inizio verso impegni più concreti. Io aspetto le evoluzioni della blockchain per il tessile 😉 Ma l’immersione nella tecnologia ve la rimando al prossimo mese. Così come altri simboli, sigle ed etichette!

Collaborazione: utopia naïf

Qual è il suono di una sola mano che applaude?”

Koan Zen

A periodi alterni il tema della collaborazione mi si ripropone, forse perché non lo ho ancora digerito bene o semplicemente perché in questo periodo storico trovo che sia l’unica cosa sensata per uscire dal casino. Collaborare: da cum laborare, etimologia piuttosto semplice per un concetto altrettanto semplice, quello del lavorare insieme. No, non solo il lavoro gomito a gomito dei colleghi di ufficio che si impegnano per raggiungere un obiettivo, ma un concetto di collaborazione estesa, parallela, più “umana”, dove ci si unisce per il raggiungimento di un obiettivo comune, anche a distanza, anche percorrendo strade parallele con una meta finale condivisa. Dove però non ci si spintona, non si girano le frecce per far perdere la direzione, non si affossano i compagni di viaggio e dove chi può sostenere l’altro lo fa, perché l’obiettivo e la meta sono condivisi. E sono importanti. Sì, lo so, può sembrare naÏf, e forse lo sono; ma credo ancora che l’uomo sia un animale sociale, sebbene stia prendendo una deriva egocentrica/individualista per cui percepisco e vedo che la collaborazione sana e sincera è cosa sempre più rara. Se facciamo uno Zoom Out, alla situazione globale, ci rendiamo già conto dell’incapacità di mettersi d’accordo e di fare qualcosa di concreto per problemi che riguardano il Mondo Intero (crisi climatica per dirne una?); se zoommiamo sempre più vicino le situazioni non cambiano, anzi, si ripetono le stesse dinamiche. A volte fanno ridere. In ogni caso fanno riflettere…

Collaborazioni interessate (e diffidenza)

Perché collaborare? È una questione interessante. Tutte le volte che ho deciso di collaborare con qualcuno è perché ho sempre pensato che mettendo insieme le competenze, i talenti e le conoscenze di più persone, si potessero raggiungere obiettivi più grandi; ma anche per supportarsi nei momenti di sconforto ed essere più forti, insieme. Ovviamente in tutte le collaborazioni c’è un interesse, ma è(o almeno dovrebbe esserecondiviso. Se l’interesse è solo ed esclusivamente personale, le collaborazioni diventano semplice e pure interesse. E sono destinate a finire…male! Perché in questo tipo di interazioni ci sarà sempre qualcuno che si sente “sfruttato” (quelli che poi smetteranno di essere propensi alla collaborazione) e chi invece si sentirà “furbo” per aver approfittato bene bene del prossimo per raggiungere i suoi obiettivi. Ah, l’etica…

Nel mondo Social, poi, ormai le collaborazioni sembrano sempre di più una mossa di marketing per accaparrarsi i follower di qualcun altro e far crescere la propria community senza che ci sia un reale interesse verso la costruzione di altro. Così chi è numericamente “più grande” comincia ad usare la sua influenza solo con chi ritiene altrettanto all’altezza e chi è “più piccolo” gira con i suoi simili perché ha paura anche solo di chiedere, una sorta di timore reverenziale verso chi è “più influente“. “Su IG sono un po’ intimorita, è tutto così patinato, quasi irraggiungibile“. E ancora: “Per una realtà piccola come la mia è difficile chiedere collaborazioni perché non so cosa potrei offrire a chi mi sembra già arrivata“. E così si creano cerchi e gruppi, opportunamente chiusi, in cui ognuno rimane nella sua “casta“, senza possibilità di incontro; nella vita reale così come in quella virtuale (che altro non è uno specchio di ciò che c’è fuori). Si tende a fare gruppo con chi è raggiungibile, agli altri manco si prova a chiedere…

Inutili guerre tra poveri: siamo sempre più soli

In certi campi e a certi livelli ho visto spesso degli schieramenti evidentemente politici o dominati da un interesse nemmeno poco nascosto: squali con squali si intendono 😉 Ho sempre pensato, invece, e mi pareva quasi logico, che la collaborazione tra “piccoli” dovesse essere un sistema all’ordine del giorno. E invece no: i cerchi piccoli fanno ancora più fatica a formarsi. Chiuso ognuno nella propria stanza o laboratorio, a progettare in solitaria senza alzare il naso o allungare lo sguardo un po’ più in là, si crede di fare cose incredibili e ci si chiude ancora di più per “non essere copiati“! Non si chiede aiuto ad un collega per accedere a un materiale per il quale non si riescono ad avere i minimi; si fa tutto da soli per non far infilare nessuno nel proprio mondo (guai a chi si avvicina); non si fornisce un indirizzo utile a qualcuno che si muove nello stesso ambito perché potrebbe “superarci“… E via così. In una guerra tra poveri dove il peso della competizione sembra quello di grosse holding quotate in borsa. Mentre siamo sempre tutti più soli ed isolati, faticando incessantemente per guadagnarci un posto nel mondo. Boh.

Capita anche che piccoli illuminati decidano di collaborare in nome di un obiettivo comune e l’impegno c’è…fin quando uno raggiunge il suo di obiettivo e comincia a spiccare il volo. Quello è il momento in cui tutti i valori ed i principi condivisi se ne vanno a fare in culo, allegramente. “Quando inizi ad alzare i soldi i buoni propositi se ne vanno a quel paese“, mi disse una volta una mia amica/collega (con la quale collaboro ancora). E aveva ragione. Ho visto persone sparire dai progetti appena avevano avuto un po’ di successo. Invece che allungare la mano e portare visibilità a tutti…ciao poveri!!! 

Insomma, non se ne esce: l’esempio dominante, quello che guida il mondo e le dinamiche di potere, è quello che funziona.Si copia e si replica a tutti i livelli. Il resto, semplicemente, non funziona.

Paura, Insicurezza, Ego

Ho analizzato il panorama sotto più punti di vista, ho interpellato molte persone, anche del mio settore (ovviamente le mie riflessioni partono dall’ambito moda, ma si possono estendere pari pari ad altri settori) per riuscire a capire il meccanismo, il perché sia così difficile la collaborazione onesta. E siamo sempre lì: è tutta una questione di consapevolezza. “Succede quando non sappiamo chi siamo davvero“. Consapevolezza personale: il conoscersi, il sapere chi siamo, riconoscere il proprio valore ed anche i propri limiti.

Cos’è la paura di perdere i propri privilegi, se non un’insicurezza di fondo? Ed il voler arrivare per primi non ha a che fare con l’egocentrismo smisurato? E la chiusura? Non è forse un fortino costruito intorno al nostro essere per paura di un’invasione o paura di ulteriori ferite (post evento traumatico non analizzato)? La paura di chiedere, l’ossessione dell’essere copiati, la mancanza di onestà…è quello che abbiamo dentro, mostri compresi, che dà vita ad una serie di comportamenti ed atteggiamenti. Quello che è dentro si riflette fuori, nel micro e nel macro. Ecco perché sarebbe importante non perdersi mai di vista: l’autoanalisi come base per un buon vivere, con se stessi e con gli altri. La consapevolezza è indispensabile per ogni tipo di relazione. Anche perché si collabora con le persone, non con le idee.

Collaborare fa rima con risuonare

Arriva quindi una nuova o forse antica consapevolezza: non è possibile collaborare solo perché si hanno obiettivi affini. È possibile farlo solo con persone affini, persone che risuonano alla stessa frequenza. Sì, lo so, questo suona come un fricchettonismo new age anni 90, ma credo che tutti abbiamo fatto esperienza di questo “sentire” intuitivo. A volte ci si sbaglia e siamo costretti a ricrederci, ma molto spesso no. Per collaborare onestamente ci si deve trovare, bisogna essere sulla stessa lunghezza d’onda, stimarsi e rispettarsi a vicenda in una dimensione onesta. E questa cosa non può accadere con tutti. Anzi, accade con pochi. Quindi?

Quindi basta fare la corte a persone/realtà che non sono interessate. Basta perdere tempo con chi non ha la stessa frequenza. Basta volersi unire per forza solo perché si hanno gli stessi obiettivi. Non funziona e alla lunga è anche frustrante: tendiamo sempre a pensare che c’è qualcosa di “sbagliato” o poco attraente in noi. È come quando ci piace qualcuno/a e ci ostiniamo: non si può stare dietro a chi non ci vuole, anche se sulla carta sarebbe perfetto. Se non c’è attrazione, meglio voltarsi da un’altra parte. O stare soli. Tanto qualcuno con cui camminare si trova sempre. E ci possono essere un sacco di piacevoli sorprese dietro l’angolo 😉

Può sembrare una sconfitta. Io la vedo come una vittoria. Tu, come la vedi?